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La filosofia politica di Hannah Arendt

1. Introduzione
2. Totalitarismo e Rivoluzione
3. La Politica
3.1 L'opera
3.2 Il lavoro
3.3 L’azione
3.4 Excursus: Teatro
3.5 La natività
3.6 Il CHI 
3.7 Il potere e lo spazio di apparizione
3.8 Excursus: Teoria del contratto e femminismo
3.9 Imprevedibilità è narratività
4. La politica, la teoria di campo e la comunicazione
5. Riassunto
6. Bibliografia



3.2 Il lavoro

L'azione è essenziale per la politica, poiché questa si costituisce attraverso l'azione. Il concetto di opera è importante perché, come si è detto, la sua interferenza con la politica è distruttiva. Il lavoro è invece di importanza assai minore. Tuttavia ci sono due buoni motivi per trattarlo: In primo luogo il lavoro fa parte della gerarchia della Vita activa, rientra nella triade delle attività umane, e in secondo luogo, il lavoro è un altro ambito che deve essere preservato da ogni ingerenza dell'azione pena la sua distorsione. Ci riferiamo principalmente al terzo capitolo della Vita activa, pag. 76 e sgg. Hannah Arendt distingue il lavoro dall'opera constatando che, mentre l'opera dà come risultato un oggetto durevole, i risultati del lavoro vengono subito consumati (1). Il concetto arendtiano di lavoro è improntato femminilmente. Con lavoro la Arendt intende, contrapponendolo all'opera, l'insieme delle attività umane i cui risultati non hanno consistenza anzi vengono subito annullati o distrutti. I membri di una società patriarcale, come siamo in genere, vedono le donne occuparsi di ciò. Pulire, cucinare, spolverare (2) vi appartengono, e anche l'agricoltura (3). Hannah Arendt ci fa notare come Sisifo avrebbe in realtà dovuto essere donna. Il lavoro, dunque, non è né opera né una qualsiasi forma di attività salariata. Il lavoro, al contrario dell'opera non ha come fine un oggetto, il suo campo di azione e giustificazione di esserci è la necessità del mantenimento della vita umana e dello scambio diretto uomo-natura (4).

La differenza tra una pagnotta, la cui permanenza nel mondo ammonta a poco più di un giorno e un tavolo, che può arrivare a servire generazioni di individui, è senza dubbio più lampante della differenza nella vita del soggetto producente, un fornaio o un falegname.

Il concetto di lavoro è molto meno importante della politica di quanto non sia l'opera, poiché non si è mai provato a dare alla politica un modello che fosse quello del lavoro. Tuttavia, opera e lavoro si influenzano reciprocamente. Non solo nella moderna società consumistica i prodotti della cucina e della pulizia non durano, ma anche i prodotti dell'opera sono sempre più beni di consumo, privi anch'essi di durevolezza. Nella prospettiva di un'economia ecologica sarebbe auspicabile che i produttori considerassero la loro attività come generatrice di durevolezza. Ancora maggiore dell’influsso del lavoro sull’opera è quello esercitato vice-versa. Un esempio potrebbe essere l’agricoltura che, secondo Hannah Arendt, rappresenta il lavoro umano più elementare e necessario. Considero un errore la scarsa valutazione attribuita dalla Arendt al lavoro, lo scambio di materiali tra uomo e natura secondo tradizione. Attività come falciare, seminare, arare sono sì monotone, ma l’agricoltura non segue uno schema banale e necessario. Bisogna mangiare, è naturale, ma le possibilità di nutrimento sono molteplici: allevamento, coltivazione di cereali, verdura o frutta, monocolture. Come l’uomo tragga il nutrimento dalla natura non è un problema da poco come crede Hannah Arendt (6):

Le cose naturali non possono esaurirsi; si rinnovano continuamente, poiché anche l’uomo, finché vive e lavora, si stanca e si riprende, quale essenza naturale il cui ciclo biologico è inserito in quello più grande e dinamico della natura

Tale rapporto uomo-natura sarà esistito per secoli, tuttavia oggi è follia presumere ancora una simile armonia.

Ciò significa che il concetto arendtiano di lavoro è in gran parte irreale; in che misura debbano essere impiegate energie normative per una corretta convivenza con la natura, è una questione aperta e tale dovrà rimanere.

Come l’ecologia ci insegna, le conseguenze delle nostre azioni nella sfera agricola possono anch’esse essere imprevedibili. L’uomo non è un lattante che si nutre dal seno della Madre Terra e fa per lei tutto il possibile, è invece uno sciagurato che con il suo egoismo quasi sotterra sua madre.

La causa di questo fraintendimento è il tenace attaccamento di Hanah Arendt alla natura nell’antichità: un tempo gli uomini non erano in grado di affrontare i disastri naturali come noi moderni, l’agricoltura seguiva le vie tradizionali e non veniva indagata, se non dai filosofi. Sotto questa prospettiva si potrebbe considerare il passare delle epoche e l’alternarsi di semina e raccolta come una frugale Necessità. Che la procedura di agricoltori anteriori contenga un po’ di scienza tacita lo si vede negli effetti collaterali dell’agricoltura moderna, che ha preso congedo dalla tradizione e si orienta, come tutta la nostra cultura, verso l’opera, tanto che ormai si trova il DDT perfino nel latte materno degli eschimesi.

Nell’agricoltura moderna si capiscono bene gli effetti di un’eventuale intromissione dell’opera nel lavori. I prodotti agricoli in quanto prodotti, sono solo un segnale esterno. Il contadino non produce i frutti del suo lavoro ma coltiva un campo, lo sarchia e lo semina. La maturazione dei cereali è un processo naturale. La dinamica biologica li fa crescere, non l’agricoltore.

La sfera dell’opera si inserisce nel lavoro in maniera pratica e diretta sotto forma di rappresentanti di macchine agricole, pesticidi e concimi. Tutte queste cose vengono di fatto prodotte. Così l’opera penetra nella sfera lavorativa e le imprime il suo stampo. Per produttore di concimi la crescita del grano è il progresso del proprio processo produttivo. Ma anche la stessa idea di opera entra nell’agricoltura, non solo il concime. Il progetto partorito dalla mente umana, la formula chimica è il vero agente del processo. Questa parola magica mette in modo il meccanismo di reazione, penetra nella materia, la modella con il calore e la pressione, e le dà una forma altrimenti impossibile da ottenere. E come nell’emanazione plotiniana, il nuovo livello raggiunto dalla materia aggiunge la sua essenza ad un altro livello: il grano sul campo. Questo processo non è un’ideologia dell’industria chimica: la formula chimica guida la produzione del concime e questo riversa sa sua essenza sui cereali. La differenza tra il rendimento di un campo trattato chimicamente e uno tradizionale, il surplus di rendimento è l’emanazione del νουσ nella sfera biologica, la traslazione del pensiero in cereale, un trionfo dell’opera in un ambito ad essa estraneo. E qui cominciano i problemi, poiché

Tutta l’opera è una violenza, e l’homo faber, il demiurgo può solo eseguire il suo compito distruggendo la natura

Hannah Arendt applica l’affermazione all’approvvigionamento di materie prime. Non è chiaro però, in che modo un albero che cade distrugge la natura(8) mentre la spoliazione di un campo dei suoi frutti (9) non sortisca alcun effetto negativo. Secondo me l’opera è di per sé violenta, poiché costringe il mondo degli oggetti ad assumere determinate forme senza tener conto della dinamica propria dell’oggetto stesso, che è inserita nel ciclo biologico in cui anche l’agricoltura opera.

Una descrizione dell’agricoltura in quanto processo produttivo non è certo la soluzione al problema o la scienza necessaria, il concime non è una cornucopia e Plotino sta stretto in tutto questo. In Plotino i livelli dell’essere hanno solo tre possibilità: rimanere dove sono, salire o fluire verso il basso per generare un altro essere. Se il concime fosse l’ultimo livello plotiniano, si dovrebbe trasformare tutto in cereale, perdite o inquinamento sarebbero da escludere. Inoltre la successione si intreccia: sotto il νουσ c’è la ψυχή, poi il vivente e infine il minerale. Il concime è minerale. Il νουσ salta due livelli e agisce sui minerali. E il risultato ascende parzialmente al vivente, il resto inquina l’acqua.

Come si vede, se l’opera mal si adatta alla sfera biologica, e Plotino vi si adatta ancor peggio. Ciononostante mi sentivo in dovere di sviluppare il concetto, poiché temevo che qualcuno che si occupa di agricoltura prendesse per buono quanto scritto.

Riassumendo: Il lavoro è per la Arendt ogni attività il cui risultato non è destinato a durare, non ha consistenza ed è volto solo all’uso e consumo. Il lavoro consiste nello scambio di materiali tra l’uomo e la natura. Lo scambio non presenta problemi per Hannah Arendt, cosa assolutamente errata nell’agricoltura moderna. Il lavoro è infine di importanza secondaria per la politica.


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Note:
  1. Leo Joseph Penta, Potere e comunicazione, FU, Berlin, 1985, pag. 12
  2. Vita activa, pag. 92
  3. Ibidem, pag. 126
  4. Ibidem, pag. 86
  5. Ibidem, pag. 126
  6. Kultur und Politik, pag. 1125
  7. Vita activa, pag. 127
  8. Ibidem
  9. Kultur und Politik, pag.1125

I rinvii sono riferiti alle edizioni tedesche.


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aggiornato: 29.06.2006